dopodinoi la legge non piace


anno VI / n. 2344
Press-IN
 INCLUSIONE - INTEGRAZIONE - INFORMAZIONE
 Rassegna stampa quotidiana sul mondo delle disabilità

dopodinoi


Redattore Sociale del 17-10-2014

Dopo di noi, la legge non piace al Csa: "Nega diritti esistenti"

 TORINO. A fare da detonatore, probabilmente, è stato il tema dell’autismo: tra storie di diritti negati e il lavoro di giornalisti come Gianluca Nicoletti, succede che i genitori di parecchi ragazzi disabili inizino a chiedersi pubblicamente ciò che per anni si sono domandati in privato. Ovvero, che ne sarà dei loro figli nel momento in cui non potranno più occuparsene? È così che, nei mesi scorsi, la questione del “dopo di noi” è rientrata ufficialmente nell’agenda politica nazionale: ben cinque proposte di legge, al momento, sono allo studio della Camera, a firma degli onorevoli Grassi, Argentin, Miotto (PD), Vargiu (Scelta civica) e Binetti (Udc). Ciò che delineano è un sostanziale passaggio di competenze dal pubblico al privato sociale, che dovrebbe tradursi nella creazione di un fondo da 150 o 300 milioni annui, da destinare a una serie di interventi svolti da organizzazioni senza scopo di lucro. Alle quali spetterà l’onere di progettare i programmi di assistenza, e di allestire e gestire strutture residenziali o semi-residenziali, sul modello delle comunità alloggio.

 Un’ipotesi che ha però mandato in fibrillazione un vasto insieme di organizzazioni per la tutela dei disabili, che dal 1970 opera in Piemonte sotto il nome di “Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base” (Csa). Da mesi, le associazioni che fanno capo all’ente sono in allerta contro quello che ritengono “un grave tentativo di negare leggi e diritti esistenti”: il riferimento è alla normativa sui Lea (livelli essenziali d’assistenza), che vincola il servizio sanitario a garantire cure e ricoveri in strutture residenziali e semi residenziali a tutti i cittadini non autosufficienti che ne facciano richiesta. Da anni, il Coordinamento si batte per la piena applicazione della norma; e il timore, ora, è che si voglia passarvi un colpo di spugna, con l’introduzione di leggi meno onerose per le casse dello stato.

 Lo scorso 30 settembre, in un’audizione alla Camera, Andrea Ciattaglia e Vincenzo Bozza hanno chiesto, a nome del Csa, il ritiro delle cinque proposte di legge: abbiamo raggiunto il primo, per cercare di capire meglio le ragioni dell’organizzazione.
“In primo luogo - chiarisce Ciattaglia, portavoce del Coordinamento - è quantomeno preoccupante che nessuna delle proposte contenga un singolo riferimento ai Lea: di fatto, si sta omettendo la più importante norma del nostro ordinamento per quanto riguarda i diritti dei cittadini non autosufficienti. In questo modo si rischia di creare una pericolosa confusione tra i cittadini, se non proprio una falsa informazione: le prestazioni Lea, infatti, rientrano negli stanziamenti del settore sanitario e socio-sanitario e sono quindi immediatamente esigibili, senza limitazioni di sorta. Il che è ben diverso dall’istituire un fondo di 150 o 300 milioni, che è per sua natura limitato e rischierebbe di limitare anche l’erogazione delle cure. Per questo ci preoccupa l’eventuale introduzione dei Leps, i livelli essenziali delle prestazioni socio-assistenziali, prefigurati in alcune delle proposte in esame alla Camera: i destinatari sarebbero gli stessi, ma, al contrario dei Lea, i Leps ricadrebbero negli stanziamenti del comparto assistenziale. Che vengono erogati per beneficenza, e sono quindi vincolati alla disponibilità di fondi”.

Non è detto, però, che questi interventi si escludano a vicenda. Nelle intenzioni dei legislatori potrebbero viaggiare in parallelo...
“È un’obiezione che ci è già stata posta. Il punto è che le nuove proposte di legge si rivolgono espressamente a persone non autosufficienti o affette da gravi forme di disabilità: ovvero all’identico target di riferimento della normativa sui Lea. Leggi in materia di assistenza alle persone non autosufficienti esistono già: come ribadito alla Camera dei deputati, dal punto di vista del diritto la questione del ‘dopo di noi’ è risolta da oltre un secolo. Già dal 1934, in base al Regio decreto 383, i Comuni erano obbligati a provvedere al mantenimento degli inabili al lavoro e quindi anche al sostegno volto a consentirne la permanenza a domicilio. Ha senso continuare a legiferare su una materia già ampiamente codificata?”

C’è chi sostiene di sì: di fatto, sono in molti oggi ad auspicare un maggior peso dell’iniziativa privata, nelle questioni che riguardano il ‘dopo di noi’
 “Noi non abbiamo nulla contro i privati, tutt’altro. Da anni, ad esempio, ripetiamo che le migliori strutture residenziali sono, a nostro avviso, le comunità alloggio da 8 o 10 posti: le quali sono in gran parte gestite da privati, ma convenzionate con il pubblico, che resta garante dei diritti delle persone ricoverate. Ma delegare totalmente le competenze di Asl e Comuni all’iniziativa privata potrebbe rivelarsi pericoloso: a differenza delle Asl, il privato non è tenuto a garantire l’universalità dell’accesso. I costi di ricovero, ad esempio, potrebbero essere troppo elevati; la selezione dei pazienti potrebbe rivelarsi discrezionale, o del tutto arbitraria. Ancora una volta, dev’essere chiaro che parliamo di sanità, non di beneficenza; se in gioco c’è la salute, solo lo Stato può farsi carico dei diritti dell’individuo. C’è poi un discorso economico da affrontare: il fondo previsto dalle nuove proposte di legge, oltre agli interventi, dovrebbe finanziare anche l’implementazione delle nuove strutture assistenziali. La costruzione di una comunità-alloggio può richiedere fino a un milione di euro; mentre, per ogni paziente, queste strutture spendono in media 54mila euro l’anno. Poco importa, quindi, se il fondo verrà finanziato con 150 o 300 milioni di euro: lo stanziamento potrebbe rivelarsi insufficiente. E il rischio, a quel punto, sarebbe di assistere a un decadimento generale degli standard assistenziali”.

Sembra quasi che, sul “dopo di noi”, si vadano profilando due opposti paradigmi: da un lato, voi e quanti sostengono che solo lo Stato possa farsi garante dei diritti delle persone disabili. Dall’altra chi, come Gianluca Nicoletti, ritiene che siano le famiglie, con l’iniziativa privata, a dover prendere in mano gli interventi assistenziali.
“Dal nostro punto di vista, nella maggior parte dei casi, si tratta di un problema di disinformazione o di sfiducia. Spesso i familiari non sono consapevoli dei propri diritti; e anche qualora lo siano, tendono a rinunciarvi troppo in fretta. Quella sui Lea non è una normativa esente da problemi; di fatto, in molte zone d’Italia resta del tutto inapplicata. Ma sappiamo per esperienza che, nel momento in cui si inoltra una richiesta ai sensi di legge per quel tipo di prestazioni, la sanità non può far altro che erogarle. Proprio per questo, il Csa si è fatto promotore della petizione popolare per la piena attuazione dei Lea; e per lo stesso motivo, nel luglio del 2012, la Commissione affari sociali della Camera ha approvato all’unanimità una risoluzione che impegnava il Governo “ad assumere le iniziative necessarie per assicurare la corretta attuazione e la concreta esigibilità delle prestazioni sanitarie e delle cure socio-sanitarie previste dai Lea”. Come abbiamo più volte sottolineato, è altrettanto grave che in tutte le proposte di legge si ometta di menzionare questa risoluzione: la Commissione ha già indicato al Governo la direzione in cui lavorare. Lo ha fatto da ben due anni, per cui, prima di legiferare ulteriormente, è loro dovere procedere in quella direzione”.

Che cosa vorreste dire a quei genitori che hanno perso fiducia nella tutela statale?
“Che, in questi quarant’anni, abbiamo avuto numerose prove riguardo all’efficacia delle leggi che regolano l’assistenza ai disabili. A tal proposito, durante la nostra audizione, abbiamo citato un articolo tratto dalla pubblicazione “Prospettive assistenziali”; che descrive come, già nel 1998 e in appena 21 giorni, si sia riusciti a procurare un ricovero d’emergenza in una comunità alloggio parafamiliare a un ragazzo colpito da un grave handicap intellettivo. Sia chiaro che noi non vogliamo istituzionalizzare ogni disabile d’Italia: la questione interessa una vasta platea di soggetti, per cui qualcuno avrà bisogno di interventi molto meno articolati rispetto ad altri. Ma dev’essere chiaro che stiamo parlando di un problema sanitario, non sociale; e questa distinzione, alla fine, farà un’enorme differenza. Le norme che regolano l’assistenza ai disabili ricadono nel comparto sanitario, e questa è la migliore garanzia di cui le famiglie possono avere bisogno. I pazienti non autosufficienti e i loro familiari devono imparare a esigerne la piena applicazione. Ma se l’onere di difendere un diritto spetta, in prima istanza, a chi ne è titolare, è altrettanto vero che alla politica, alle istituzioni e ai media non si può permettere di diffondere informazioni false o fuorvianti. Specialmente se queste sono contenuto in un testo di legge. (ams)


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