18 dicembre 2014 ciao Franco! ti ricordiamo

Questa vita così difficile, unica, meravigliosa

di Franco Bomprezzi

Non posso ricordare com’ero appena nato. 
Se lo ricordano però i miei genitori: un esserino fragile, indifeso, dalle ossa di vetro, che si rompevano tenendomi per mano. 
Ora ho 38 anni, ma nel 1952 l’Osteogenesi imperfetta era un’ipotesi scientifica, più che una vera e propria diagnosi clinica. Solo oggi, e a fatica, se ne parla nel mondo. Da pochi anni in Italia c’è un’associazione che se ne occupa (egregiamente). Ma allora no. 
I miei genitori erano soli. E hanno fatto quello che cuore e ragione dettavano loro. 
Hanno cercato prima di tutto di salvarmi la vita, poi di farmi crescere normalmente. 
E non era facile, visto che questa follia del Dna mi condannava a uno sviluppo impazzito delle ossa, a una deformità sicura degli arti, peggio, alla probabile sordità, al nanismo, alla possibile insufficienza cerebrale. Erano sentenze dure, quelle che i medici pronunciavano allora, forse proprio per non illudere, per non alimentare sogni che potevano essere troncati anche dalla morte, nei primi anni di vita. E invece non fu così. 
O meglio ebbi solo in parte le conseguenze feroci di un male raro e grave, di un handicap che ti rende “diverso”, ma che ti lascia la testa integra (almeno così pare).
 Sono cresciute poco le gambe, le braccia sono arcuate, la scoliosi è accentuata, ma insomma, con un apparecchio ortopedico e una buona carrozzina, oggi posso dire di avercela fatta, di essere un disabile che non si sente handicappato.
Ma ripercorrendo a ritroso il film di una vita tutta in salita, non posso dimenticare il dolore. 
Sì, il dolore fisico, quello vero, atroce, delle ossa che si rompono e che vengono messe in trazione per essere aggiustate.   Oggi è diverso, le tecniche sono migliori, eppure sono convinto che i medici dovrebbero porre maggiore attenzione al problema del dolore. 
Un paziente non è solo un fatto clinico, un caso da studiare: è un essere umano, irripetibile. 
Ha diritto a non soffrire inutilmente. 
Fino all’età di dieci anni ho vissuto fra la casa e le cliniche, praticamente immobilizzato. Ero un bimbo infelice? No, spesso malinconico, forse. Ma sereno. Perché non mi sentivo handicappato (a parte il fatto che allora la parola non esisteva, si diceva “minorato” o “invalido”). 
Il merito è stato della famiglia: due genitori splendidi, un fratello generoso e affettuoso. Abbiamo avuto entrambi la medesima educazione, punizioni comprese. E poi gli amici. Non potendo muovermi, trasformai la mia casa in una specie di club: tendevo molto spesso a pormi al centro dell’attenzione, ero un po’ antipatico, perché cercavo di impormi usando tutte le risorse del carattere e della volontà.
Poi, a un certo punto, mi sono accorto di essere handicappato. Quando? 
Non lo so di preciso, ma era il periodo inquieto dell’adolescenza. 
D’improvviso mi sono visto “diverso”, ho capito che non sarei cresciuto come gli altri, che non avrei mai corso dietro a un pallone, che non avrei mai potuto (così pensavo) avere una mia vita autonoma, un amore, una famiglia. Mi sbagliavo, in parte, ma questa cruda e drammatica presa di coscienza è stata forse la mia salvezza. 
Ho vissuto sempre in salita, questo è vero, ma ho avuto momenti di grande soddisfazione. 
Negli studi, ad esempio. Non era facile, più di vent’anni fa, decidere di frequentare la scuola pubblica pur essendo in carrozzina. Quelle che oggi si chiamano barriere architettoniche, allora erano semplicemente rampe di scale lunghe e ripide, alle medie, al ginnasio, al liceo. Poi l’università, la scoperta del mondo, degli altri, dell’amore. E le prime, cocenti, delusioni. 
Prima di incontrare la compagna della mia vita, anche lei in carrozzina (paraplegica), mi sono innamorato tante volte, come è logico. E quasi sempre scoprivo dolorosamente nell’altra la sorpresa, il turbamento per aver provocato in me un sentimento non ricambiato o comunque rimosso, bloccato, forse per pudore o per paura. Ma è tutto comprensibile, è umano. 
Dell’amore si può discutere in cinquanta, ma poi bisogna farlo in due. E non credo sia facile risolvere questo problema con la logica e tanto meno con le leggi. Io sono stato fortunato. 
Ho incontrato, quasi casualmente, attorno ai trent’anni, la donna della mia vita. 
Anche lei in carrozzina. Una rinuncia? No, una conquista stupenda che abbiamo fatto insieme, perché insieme abbiamo scoperto l’emozione di condividere un bagaglio di esperienze, di sentimenti, di battaglie interiori ed esterne, di fatiche morali e fisiche. Lei mi ha insegnato tante cose e fra queste di amare il mio corpo, a rispettarlo, a migliorarlo. 
Facendo sport e gareggiando insieme ad altri disabili, giovani, simpatici, impegnati. E lo sport mi ha irrobustito, ha fatto sì che quelle ossa”di vetro, protette da muscoli robusti, reggessero anche a sforzi notevoli. Ho conquistato così la piena autonomia. Viviamo da soli, in un appartamento normalissimo di un condominio normalissimo. A due passi dalla redazione del giornale, che riempie le mie giornate. Non è stato facile neppure questo, ovviamente. Il lavoro è una conquista decisiva. Non dipendere dall’assistenza, non aver bisogno di una pensione, ma potersi guadagnare da vivere svolgendo un’attività normale è fondamentale (e possibile) per tutti i portatori di handicap. 
Io forse ho un po’ esagerato, puntando tutto sul giornalismo, che specie quando si comincia non è davvero un’attività semplice o sedentaria. Ma anche se il direttore del primo giornale al quale ho collaborato riteneva che i suoi cronisti dovessero prima di tutto avere buone gambe per camminare, io, che dovevo accontentarmi della testa, non mi sono rassegnato. Meriti eccezionali? No, davvero. Ritengo di essere una persona normale che ha avuto molte coincidenze fortunate durante il percorso di una vita, che spero riservi ancora molte sorprese, e scoperte. 
Questa vita così difficile, dolorosa, sofferta, non mi sento di augurarla a nessuno, e per questo non intendo trasmetterla a un figlio. Eppure per me rimane un’irripetibile, meravigliosa opportunità offertami dal destino. 


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