il voto di povertà: da lombardia Sociale
Il voto di povertà
Il punto di vista di Giovanni
Merlo - direttore
Ledha - sul tema ISEE e residenzialità
di Giovanni
Merlo
23
maggio 2016
Gran
parte dei nuovi regolamenti comunali sulla partecipazione alla spesa prevedono
che le persone con disabilità che accedono ai servizi residenziali utilizzino
tutti i loro patrimoni prima di essere presi in carico dai Comuni. Una scelta
che in questo contributo viene giudicata insostenibile.
Nel corso
del 2015 i Comuni lombardi hanno iniziato ad elaborare e a approvare i primi
regolamenti sull’accesso ai servizi sociali e alla partecipazione alla spesa.
Documenti e norme che le associazioni hanno iniziato a analizzare, in
collaborazione tra loro e con il supporto della rete associativa
regionale. Come LEDHA abbiamo quindi avuto la possibilità di leggere
decine di nuovi regolamenti: ne abbiamo visionati poco meno di un centinaio sia
di ambito che comunali, provenienti da diverse province. In materia di
partecipazione alla spesa è evidente che pongono un problema specifico riguardo
al trattamento che viene riservato alle persone con disabilità che vivono in
strutture residenziali. In
estrema sintesi, la gran parte dei regolamenti esaminati prevede che
l’intervento del Comune per il pagamento della cosiddetta retta sociale avvenga
solo quando la persona rimanga senza alcuna risorsa economica propria.
Quale modello di welfare sostiene una idea di questo tipo? Quale idea di
vita adulta delle persone con disabilità emerge?
Cosa sta
accadendo
Il nostro
percorso, prende il via da quanto già ben presentato dall’articolo “Isee e residenzialità. Un altro nodo del dibattito“ che
ha affrontato questo aspetto critico dei nuovi regolamenti comunali.
Correttamente si fa presente che la pratica di prevedere l’intervento pubblico
a sostegno della residenzialità delle persone con disabilità solo in assenza di
risorse personali non sia certo una novità. Vale comunque la pena, per
inquadrare correttamente la questione dare un’occhiata a cosa dice in proposito
il “Canovaccio di lavoro[1]” presentato da Anci Lombardia, nel
dicembre del 2014. Una sorta di regolamento tipo, proposto ai Comuni per
agevolare il lavoro di redazione dei nuovi atti, previsto dal Dpcm 159/2013 che
ha istituito il nuovo Isee. L’analisi riguarda il punto numero 18,
formato da 5 articoli, denominato “Servizi residenziali per persone con disabilità
e anziane.” Si prevede che il ricorso al “ricovero
in strutture protette” come
extrema ratio, “in mancanza di
soluzioni alternative validamente perseguibili” e prosegue nei due articoli
successivi. Il Comune si fa carico di “interventi
economici a favore di cittadini residenti (…) con condizione economica
insufficiente a provvedere alla copertura economica integrale della retta di
ospitalità (…) sulla base dei
criteri individuati dal D.P.C.M. 159/2013.” Una integrazione che comunque è
assunta, nell’ambito delle risorse economiche a disposizione. Dentro questo
contesto appare coerente la previsione che “in
presenza di eventuali beni mobili o immobili, il Comune potrà procedere ad
accordi con i beneficiari per l’alienazione dei beni medesimi, fermo restando
che il ricavato della alienazione rimane vincolato al pagamento della retta. e
che “In presenza di bene immobili non adibiti ad abitazione dell’eventuale
coniuge, il Comune potrà procedere ad accordi con i beneficiari per la locazione
(…), fermo restando che il ricavato (…) rimane vincolato al pagamento della
retta.” e che infine “In assenza di accordi, (…), la
contribuzione comunale deve intendersi quale anticipazione di quanto dovuto del
cittadino beneficiario, con conseguente titolo, da parte del Comune, di
rivalersi sulla futura eredità.”
Una
ipotesi di lavoro che è stata ampiamente accolta e fatta propria da diverse
Amministrazioni Comunali. In molti tra i regolamenti approvati, troviamo una
netta separazione tra quanto previsto per i servizi domiciliari e
semiresidenziali da quelli residenziali. Nel primo caso si i regolamenti
interpretano quanto previsto dal Dpcm 159/2013, ovvero che il calcolo di quanto
dovuto dalla persona come forma di partecipazione alla spesa sia connesso al
suo Isee, senza altre indicatori o parametri. In questi casi i punti di
discussione possono riguardare i valori sia della soglia di esenzione che di
quella massima (Isee iniziale e Isee finale), le modalità di calcolo delle
richiesta economica (se per scaglioni o con il metodo della progressione
lineare), i valori delle richieste economiche e il campo di applicazione
dell’Isee sociosanitario o ristretto. Su quest’ultimo punto una FAQ dell’INPS[2] ha
definitivamente chiarito che si debba applicare l’Isee sociosanitario a tutta
le filiera dei servizi sociali in favore delle persone con grado “disabilità –
non autosufficienza”. Passando dai servizi domiciliari e semiresidenziali a
quello residenziali si assiste ad uno scarto brusco e improvviso: il contributo
del Comune avviene solo ad esaurimento delle risorse personali. In molti casi
si specifica che la soglia è costituita dal possesso sul conto corrente di più
di 5.000 € o da qualsivoglia proprietà immobiliare, su cui il Comune si riserva
di esercitare una sorta di ipoteca.
Un’idea
di politica sociale che non condividiamo
Una
scelta che appare prima di tutto illegittima perché totalmente estranea a
quanto previsto dal Dpcm 159/2013 che ricordiamo, viene definito come LEA e
quindi vincolante per tutte le amministrazioni pubbliche. Al di là dell’aspetto
legale (su cui è facile immaginare che dovranno presto pronunciarsi i giudici
dei TAR) quello che colpisce è l’idea di politica sociale che sotto-intende una
scelta di questo tipo. E’ chiara una impostazione dei servizi di
welfare sociale nei confronti con la disabilità che non ha ancora fatto i
conti con l’approccio sociale alla disabilità e le prescrizioni della
Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilitàsul diritto alla
vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità.[3]
Il
modello è ancora quello familistico e caritatevole. Un
modello che prevede, come purtroppo capita, che la persona con disabilità che
necessita di molto sostegni, viva con i propri familiari, in genere i genitori,
fino a quando questi siano in grado di badare alla sua assistenza. Lo Stato
intervenie per favorire questa permanenza nella famiglia di origine e se ne fa
carico, il più tardi possibile, quando appunto i genitori muoiono o non siano
comunque più in grado di farcela. Non è un caso che nei nostri regolamenti
siano previsti gli interventi domiciliari e semi-residenziali (a sostegno della
permanenza a domicilio e per ritardare l’istituzionalizzazione), quelli
residenziali (una volta verificato l’impossibilità del nucleo familiare di
farsene carico) ma non si
trovi traccia di percorsi di vita indipendente e inclusione, sia di carattere
occupazionale che sociale, che riguardino l’abitare ordinario e non
emergenziale di tutte le persone con disabilità.
Nonostante
queste premesse si rimane stupiti di come le
persone con disabilità, in questi passaggi, siano trattate alla stregua di
monaci di clausura cui viene chiesto all’ingresso in convento (in residenza) di
spogliarsi dei propri beni e proprietà per dedicarsi a una vita di preghiera
(assistenza). Con la piccola differenza che i monaci operano una libera scelta,
facendo voto di povertà, mentre alle persone con disabilità non viene offerta
alcuna alternativa.
Un
modello insostenibile
Si tratta
di un modello di intervento chiaramente discriminante e lesivo della dignità
della persona ma anche, paradossalmente, non sostenibile dal punto di vista
strettamente economico. La dimensione economica è la giustificazione che molti
amministratori portano a sostegno delle loro scelte: “E’ una questione di
equità! Se non facciamo così, se non facciamo pagare a chi se lo può
permettere, non avremo mai le risorse per rispondere a tutti, in particolare ai
più gravi e ai più poveri”
Si fatica
a fare i conti con uno degli esiti, ormai conclamati, di questo approccio alle
politiche sociali basato sull’intervento sempre residuale e sull’emergenza che
è la prima grande causa di emarginazione e di aggravamento delle condizioni di
vita e di salute delle persone con disabilità. Infatti se per essere meritevole
dell’intervento pubblico devo essere “grave e povero”, è chiaro che proprio
l’assenza di tale intervento mi farà diventare sicuramente povero e quasi
certamente “più grave” di quanto non sarei diventato nel caso l’intervento nei confronti
miei e del mio contesto sociale, fosse stato tempestivo e adeguato. Un
modello che inoltre favorisce e premia (ma non giustifica) atteggiamenti
elusivi da parte dei familiari, rendendo conveniente i fenomeni di sottrazione
del patrimonio della persona prima che venga presa in carico dalla mano
pubblica. D’altra parte se il Comune si ritiene legittimato ad
espropriare di tutti i beni la persona, perché lo stesso non dovrebbe farlo un
fratello, un cugino, uno zio?
E’
necessario cambiare rotta. Quale prospettiva possibile?
Proprio
le difficoltà economiche in cui versano le finanze comunali rendono necessario
un deciso cambiamento di rotta, che adotti uno sguardo lungimirante.
Nell’immediato le risorse per garantire il diritto all’abitare delle persone
con disabilità potranno essere rintracciate solo in unacorretta
rinegoziazione con la Regione di quanto previsto dai LEA per la contribuzione
ai servizi sociosanitari, che vedono oggi la quota sanitaria a carico della
Regione ampiamente minore di quanto previsto dalla legge (si veda un precedente articolo sul tema). Nel medio e
lungo termine la questione deve essere affrontata secondo la nuova prospettiva,
prescritta dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
La
prospettiva sociale della disabilità è lontana mille miglia da questi
ragionamenti e visioni. L’idea di fondo è che tutte le persone con disabilità
abbiano diritto in ogni momento della loro vita alla propria autodeterminazione
e a vivere insieme alle altre persone e con le stesse opportunità riservate
alle altre persone. Una
visione che quindi favorisce l’uso di tutte le risorse disponibili, economiche,
sociali, personali, familiari, pubbliche e private per il raggiungimento di
questo obiettivo. Nessuno può essere obbligato a vivere con i propri
genitori per tutta la (loro) vita e nessuno può essere obbligato ad essere
assistito dai propri familiari per tutta la (loro) vita. L’alternativa alla
famiglia non può essere l’istituto, anche quando questo ora si chiami RSD.
L’alternativa deve essere un percorso di emancipazione dal proprio nucleo
familiare che porti alla condivisione e realizzazione di un progetto di vita
autonomo e indipendente nel momento in cui questo è desiderato, richiesto,
necessario. Vita indipendente non significa andare a vivere necessariamente da
soli: vita indipendente significa possibilità di realizzarsi, di
autodeterminarsi, di avere un proprio percorso di vita. E questo può avvenire
in una nuova famiglia ma anche insieme ad altre persone che condividono il tuo
stesso bisogno.
E’ vero
che in alcune situazioni fatichiamo ancora a concepire ancora come tutto questo
possa essere reso possibile. Ma
in molti casi sapremmo benissimo cosa fare e come farlo ma facciamo fatica,
molta fatica, a trovare le risorse per farlo. Mentre invece i soldi per mandare
le persone con disabilità in Istituto, alla fine, si trovano sempre…
Commenti
Posta un commento